Tema Meneghel - Gruppo Alpini Crocetta del Montello

- Sezione di Treviso -
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Testo del tema presentato da Alberto Meneghel, premiato con la borsa di studio
nell'anno scolastico 2004-2005
“RACCONTI DI NONNE E NONNI CHE HANNO VISSUTO  IL SECONDO CONFLITTO MONDIALE”

INTRODUZIONE  GENERALE

Io sono un alunno di terza media e, pur essendo un pacifista mi piace molto la storia e ho deciso perciò di raccogliere queste  preziose testimonianze, sulla seconda guerra mondiale, che altrimenti sarebbero  andate perdute.
Queste testimonianze, da me ricevute e raccontate da due nonne e un nonno; per questo li devo ringraziare, per la loro  testimonianza di questi episodi verificatisi al tempo della guerra e che  hanno  risvegliato in loro, vecchi e dolorosi ricordi.
Tutti e tre ora sono pensionati e si chiamano Scarton Ferdinando, Polegato Gigetta e R.S. (quest’ ultima non ha voluto dare il  suo nome per motivi personali).
Infine ho raccolto la testimonianza di mia nonna Carmela attraverso il diario di mio papà.

PRIMO RACCONTO DI R.S.

Alle sei, in un mercoledì mattina del 1943 ho  avuto una visita da una persona sconosciuta. Avvertiva le famiglie che le SS  venivano a fare rastrellamento, avevo molta paura e prima di scappare mi sono  fatta raccomandare l’anima da mia madre.
Purtroppo però sono stata presa e portata via come ostaggio; ho camminato da Ciano fino alla strada militare con la veste del canapificio e gli zoccoli rotti!
Quando dovevo fare i miei bisogni avevo sempre  quattro sentinelle di guardia armate, come ombre.
Ero sempre nella strada militare e i fascisti, dopo avermi interrogato mi hanno fatto percorrere gran parte della presa diciotto fino a scendere alla chiesa del paese (ovviamente sempre a  piedi), dove mi aspettava un pullman con il motore acceso.
Così sono salita nel mezzo di trasporto, ricordo che i tedeschi stavano seduti con i loro lucidi mitra, mentre io dovevo stare in  piedi e la strada deformata mi faceva traballare.
Il pullman si fermò dopo circa venti minuti di viaggio a Montebelluna (Villa Marasciutti).
Lì mi hanno fatto scendere e ho dovuto aspettare fino a sera senza nulla da mangiare. Ad un tratto poi ho visto il vitellino che  tenevo nella stalla di casa mia per mano di un soldato tedesco e ho temuto che la mia abitazione fosse stata perquisita e bruciata durante il rastrellamento; cosa purtroppo risultata vera.
Mi sentivo quasi mancare; ero disperata e senza fiato. Alla sera un soldato mi ha detto che avrei passato la notte lì (per fortuna si è accorto che ero stremata) e perciò ha richiamato l’attenzione di  un’auto di passaggio (era la Topolino di un comandante tedesco) e ha chiesto se volevo salirci, ma io, in preda al panico ho corso come una pazza dalla Villa Marasciutti fino a Biadene, dove sono stata ospitata da una mia cugina per quaranta giorni.
Dopodichè sono tornata a casa da mia madre, a Ciano, completamente esausta. Il fatto che mi è rimasto impresso durante quell’esperienza  a Villa Marasciutti è stata l’impiccagione di tre giovani ragazzi, che erano con  me dentro l’autobus.

SECONDO RACCONTO DI  POLEGATO GIGETTA

Nell’autunno del 1944, mia zia che all’epoca aveva ventidue anni stava andando a lavorare al canapificio di Crocetta, con la bici insieme ad altre tre amiche.
Erano le sei del mattino quando, arrivata al  Ponte dei Romani, ha incontrato una colonna di carri armati che andavano verso  Ciano.
Assieme alle sue tre amiche sono tornare subito  indietro e, attraverso la campagna, raggiunto lo stradone del Montello, hanno allertato le varie famiglie e poi i fratelli di lei: Albino e Duilio che hanno fatto in tempo a nascondersi sul Montello in un fitto bosco d’acacie.
Di lì sentivano provenire spari e rumori dalle case vicine a causa dei rastrellamenti da parte dei tedeschi e così si sono  soffermati in quel nascondiglio fino a tarda sera.
Vicino alla Piazza Martinelli c’era il forno chiamato “Salandini” ove lavorava come aiutante un ragazzo sedicenne di nome Armando. Le SS l’hanno preso e, accusandolo di fornire di pane i partigiani, lo  portarono via.
Il medesimo giorno sono andati nella presa sedici e hanno prelevato un uomo di sessantacinque anni di nome Bordin Pietro. Era una persona semplice che cercava ferro vecchio per sfamare la sua famiglia.
Le SS hanno messo entrambi in prigione per tre giorni e poi li hanno impiccati in piazza Martinelli. Cosa orribile poi era che tutti quelli che passavano di là erano costretti a fermarsi e guardare quei  poveri corpi appesi.
Nel paese di Ciano, verso la fine del conflitto, le SS hanno catturato una trentina di persone, tra loro anche il parroco Don Carlo Massara, e rinchiuse nell’oratorio San Vettore Corona perchè volevano  ucciderle. Per loro fortuna sono state successivamente liberate.
Mi ricordo anche che in quei giorni di  rastrellamenti sono state bruciate diverse case.
Nell’ultimo periodo di guerra c’era anche un’aereo chiamato “Pippo” che solcava quotidianamente i cieli, bombardando dove  vedeva delle luci accese.
Un giorno ha colpito anche il ponte di Vidor,  facendo diversi morti.
Nel 1945, quando c’è stata la ritirata dei  tedeschi, il Piave era in piena e non tutti i soldati riuscivano a guadare il  fiume: si udivano le loro grida disperate per poi affogare con i loro muli.

TERZO RACCONTO DI SCARTON FERDINANDO

Erano i primi di Ottobre del 1943 in Croazia. I  partigiani di Tito stavano per catturarmi assieme ai miei compagni mentre  eravamo in un caposaldo (collina). Il nostro comandante ci ha detto: “Vi parlo  per l’ultima volta”.
Abbiamo dovuto lasciare alla base quasi tutte le nostre cose (per essere leggeri durante le camminate) visto che i russi, con il  loro tipico berretto ornato dalla stella rossa, ci avevano catturato.
Così sono stato portato in un paesino Croato (di cui non ricordo il nome), dove sono rimasto tre/quattro giorni. Hanno fatto un’adunata in un campo sportivo lì vicino, circondato da mura di cemento, perchè  cercavano volontari per combattere nell’esercito russo.
Quasi tutti i reparti li hanno seguiti, come mitraglieri, cannonieri e telegrafisti...
Siamo rimasti solo in quattro; dall’altra parte dello spiazzo ho osservato tre soldati russi armati fino ai denti, che venivano  verso di noi.
Per fortuna non mi hanno fatto niente perchè potevano fucilarmi, visto che non ero loro volontario.
Una mattina, nel medesimo paese, ho partecipato  ad una celebrazione eucaristica, mentre erano in corso dei rastrellamenti.
Ad un tratto sono entrati alcuni soldati italiani nel luogo sacro e mi hanno detto che all’imbrunire saremmo partiti per tornare in patria (io stentavo a crederci), ma così è stato.
Ricordo che abbiamo fatto un’adunata e poi gli  avieri ci hanno consegnato delle grandi pagnotte (una per ciascuno).
Dopo essere partiti abbiamo guadato un grande fiume e poi ci siamo diretti verso le montagne. Si camminava tanto con le guide in testa e se non andavi avanti spedito, ti fucilavano. Per dormire in mezzo ai boschi avevo lo zaino, ma poi me l’hanno requisito. Dopo diversi giorni di cammino, siamo arrivati nella città di Fiume (confine del territorio italiano durante la guerra), dove i partigiani facevano baldoria e poi finalmente ho potuto calpestare il territorio italiano.
Era una piovosa serata e speravo che ci ospitassero nel paese a valle, perchè un albero non era certo il massimo come riparo, ma c’erano tedeschi ovunque e perciò mi sono accovacciato alla meno peggio, sotto un arco di mattoni per ripararmi, ma ero talmente sfinito e bagnato fradicio che avrei voluto consegnarmi ai nemici per la disperazione.
Nella mattinata un uomo ha aperto un balcone lì vicino e ci ha invitato a casa sua. Ho potuto riscaldarmi e bere una tazza di  latte caldo, prima di riavviarmi verso la città di Trieste.
Non ne potevo più, perchè portavo ai piedi delle consunte scarpe che mi erano state date dai partigiani, legate con il filo di  ferro!
Finalmente siamo arrivati a San Donà di Piave dove ho lascito i miei amici e ho proseguito da solo fino a Treviso.
Dal luogo ho trovato un gentile ragazzo che mi ha  accompagnato in bici fino alla stazione dell’omonima città. Con il treno (funzionava con una caldaia a legna ed era lento) sono arrivato fino alla  stazione di Cornuda. Nel paese mi aspettava un mio compaesano di Ciano che mi ha  accompagnato a piedi fino a casa.

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DOCUMENTO RIPORTATO DAL “DIARIO DI GUERRA”     
DI SCARTON FERDINANDO
Mogliano Veneto lì 10 settembre 1945
Io sottoscritto Canarin Vittore, Magg. di art. di Compl. residente a Mogliano Veneto
dichiaro
che l’artigliere Scarton Ferdinando di Remigio classe 1920 residente a Ciano di Crocetta del Montello ha partecipato alle mie dipendenze alle campagne di Francia, di Yugoslavia e di Bosnia ed é stato dal 10 Giugno 1940 al 2 Ottobre 1943 sempre in zona di operazioni.
Egli ha dimostraot molta capacità e spirito di sacrificio.
Partito colla 258° Btr. del 12° Regg.to art. pes. Osoppo per la Francia, trasferito dopo la campagna francese al comando art. di Zara colla 258  Btr. Campagna Yugoslava colla 9° Btr. 3° Gruppo del 158° Regg.to Div. Zara. Campagna Bosniaca.
In fede
Maggiore Canarin Vittore
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QUARTO RACCONTO DI PANDOLFO CARMELA
(DAL DIARIO DI MIO PAPA’)

Gli amici e i conoscenti le chiamavano affettuosamente le due gemelle. Erano sorelle nate a distanza di pochi anni, ma  molto somiglianti sia fisicamente che di carattere.
Essendo molto concrete e semplici, per tutta la vita hanno badato più ai fatti veri che alle chiacchiere dando a tutti i conoscenti, ma specie a figli e nipoti, un esempio di bontà e correttezza, che ancora oggi ammiriamo e teniamo come esempio.
Siccome papà era un appassionato di storie vissute, appena arrivato in famiglia a loro piaceva tanto raccontare le loro  vite passate. Ormai i figli erano stufi di sentire sempre le solite storie...
Quello che le aveva fatte soffrire nella vita, e che era sempre presente nei loro ricordi, era la guerra e il duro periodo che avevano vissuto in quegli anni.
Ai fatti comuni di fame, freddo, paura si aggiungevano quegli episodi molto gravi, che il tempo aveva poi trasformato in fatti da raccontare anche con una certa ironia, tant’è che Carmela ci diceva:  “ridè, ridè valtri ma a mi me vien da piandar ancora unquò!”. ("ridete, ridete, voialtri ma a me viene da piangere ancora oggi").
La prima cosa che Carmela ribadiva, era che aveva fatto una scelta molto dura: quella di non sposare il suo amato Ferruccio, fino a che non fosse stata sicura di non restare vedova come molte sue amiche.
Per questo aspettò fino al rientro del suo fidanzato dalla Serbia. L’attesa non fu certo breve visto che Ferruccio era del  1913 e il periodo di naja durò per più di dieci anni!
Le nozze tanto desiderate furono celebrate nel  Novembre del 1944.
Che felicità! Proprio durante il ritorno dalla cerimonia veniva bombardato il Ponte di Vidor, i tedeschi si stavano ritirando e uccidevano senza alcun ritegno quelli che loro definivano “i traditori  italiani”.
Nel cuore di Carmela c’erano tanti ricordi tristi, ma lei faceva fatica a farli emergere, perchè l’amarezza la faceva star male anche a distanza di così tanto tempo. Le sorelle Pandolfo abitavano in una casa sull’argine del Piave a Ciano. Quando ci furono bombardamenti e sparatorie le famiglie decisero di andare via e fecero un lungo periodo di sfollamento, il dolore e il pianto non erano sufficienti poiché quando ci fu il ritorno, vennero anche i dispiaceri.
Infatti si accorsero che le povere abitazioni  erano state visitate da persone che Carmela, nonostante il dispiacere definiva:  ”pi porete e bisognose de noialtri”.
Purtroppo i bisognosi non si fecero scrupolo quando appesero ad asciugare sui ferri le lenzuola e ogni altra cosa appartenente al corredo di mamma e delle due sorelle, che per anni avevano  ricamato con tanta pazienza.
Carmela dormiva con un filo di ferro vicino al  letto, che serviva a “rebaltar le panoce sconte” in qualche intercapedine del  solaio o del pavimento, in maniera che non si sentissero “i pantegan che i fea rumor”.
Quando i tedeschi erano in ritirata dormivano nelle case e bisognava dar loro da mangiare tutto quel poco o niente che  restava.
I tedeschi che erano andati a casa di Ferruccio e Carmela sembravano pecore così sporchi e laceri, “coi oci strachi e pieni de fan, come i pori italiani che i era costretti a ospitarli.”
Il comandante decise di requisire la poca farina e comandò a Carmela e alla suocera Rosa “de far da magnar par tutti e po' de  farli dormir sul biaver e sue poche camere libere”.
Con grande paura, alla sera coi tedeschi in casa, Carmela scoprì che Ferruccio teneva in camera la pistola portata a casa dopo la ritirata dalla Bosnia e dal Montenegro.
Lei sapeva che, se fosse stata scoperta una cosa del genere, c’era l’incendio della dimora e la fucilazione. Per cui essendo  incinta si nascose la pistola in seno, scese le scale col pretesto di star male e una volta nel cesso dietro la casa, si sbarazzò della pistola buttandola nel  gabinetto, dove diceva la Carmela “che ghe sta ben tutte le armi e anca chi le  fà usar ai pori tosati”.
Avevano pensato bene di sotterrare gli averi più  preziosi per paura che fossero confiscati.
Così, la macchina da cucire, le lenzuola, le  tovaglie ricamate e altre cose furono avvolte da coperte e messe dentro un baule  di legno vennero  sotterrate sotto un portico. Morale della favola: un grosso acquazzone ha permesso l’infiltrazione dell’acqua che col tempo ha rovinato tutto.
Per finire si stava molto bene a chiacchierare con Ferruccio e Carmela sotto la pergola di uva americana. Mio papà si sedeva sempre su una lunga pietra, parlando del più e del meno, che poi risultò essere  la pietra del “larin”. Fu tolta subito dopo la guerra visto che dai fori uscivano i cimici e non si riusciva a sterminarli. Carmela, mentre raccontava la  sua storia, teneva sempre la mano destra sul cuore, in segno di un grande dolore che provava ancora oggi a causa della guerra.
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