Tema Gazzola - Gruppo Alpini Crocetta del Montello

- Sezione di Treviso -
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Attività > La scuola > Secondaria di 1° grado > Temi 2004-2005
Testo del tema presentato da Maddalena Gazzola, classe III E
premiata nell'anno scolastico 2004-2005
Sono nella cucina di Albino Poloniato, e lui mi guarda gentilmente facendomi segno di sedere.
Io mi accomodo su una sedia e cominciamo a parlare della sua vita in quegli anni di combattimenti.
Anche lui, come tanti altri giovani, ha dovuto partecipare al grande conflitto mondiale che ha sconvolto moltissimi paesi, dal 1940 al 1945; io cerco di scrivere quante più informazioni possibili su un quaderno.
Passano così due lunghe ore, ma io ho la sensazione di non aver concluso nulla. Rileggendo i miei appunti mi rendo conto di quanto è difficile comunicare, soprattutto tra persone di diverse generazioni: sono tutte informazioni vaghe e imprecise, che apparentemente non hanno un filo logico.
Alquanto demoralizzata sto per andarmene, quando l’occhio mi cade su una cornice di una foto in bianco e nero, che m’incuriosisce.
Il signor Albino se ne accorge e, vedendomi interessata al cimelio di guerra, mi racconta la storia di quell’oggetto. Realizzò la cornice durante gli anni di prigionia; aveva trovato quel pezzo di metallo tra la ferraglia di un aereo inglese abbattuto.
Ogni disegno inciso sulla cornice rappresenta un paesaggio od una speranza di quei tempi di guerra.
Lui comincia il racconto indicandomi l’incisione in basso: “Spesso avrei voluto fermarmi a contemplare il paesaggio di quegli splendidi territori, purtroppo deturpati dalle atrocità della guerra; raramente però avevo la possibilità di ammirare un tramonto o un angolo caratteristico della località in cui mi trovavo! Ero soltanto un soldato e non avevo tempo per divertirmi.
Credo che se mi fossi trovato in Libia in un’altra occasione, magari per un viaggio turistico, mi sarebbe piaciuto molto. Purtroppo però c’era la guerra e questo complicava totalmente le cose. Sulla cornice ho inciso l’oasi di Hon, nell’estremo Sud della Libia, 800 Km dalla costa; tutto attorno l’arido deserto.
Il quartiere residenziale di quest’oasi era composto principalmente dalla moschea e dalle abitazioni che gli Arabi chiamavano “zaribbe”. Esse erano dipinte di bianco e non avevano il tetto.
Lì anche in inverno era sempre caldo; ricordo che gli Arabi mi dicevano che erano da 20 anni che non cadeva una goccia d’acqua dal cielo. In alcuni momenti nei torridi pomeriggi estivi, era impossibile toccare gli oggetti costituiti di metallo, poiché scottavano letteralmente.”
Il signor Albino si ferma un attimo: è un po’ stanco, ma continua il racconto indicandomi l’incisione a sinistra, dove si nota un cielo stellato che si specchia sulle campagne d’Italia.
“Ogni sera, soprattutto nel periodo in cui fui prigioniero, guardavo le stelle pensando con nostalgia alla Patria a me cara che tanto mi mancava.
Guardando la luna pensavo a quanto fosse bella e fortunata; lei da lassù poteva vedere tutto il mondo e contemporaneamente sia l’Italia che la Libia. Forse in quello stesso momento uno dei miei parenti la stava guardando, pensando a me.
Spesso mi perdevo in questi pensieri, sognando di ritornare a casa.
Quando non riuscivo ad addormentarmi, rigirandomi dolorante sull duro giaciglio, rivedevo i miei compaesani intenti nei loro mestieri. Questo mi donava un po’ di serenità, anche se il mio senso di nostalgia aumentava sempre più.
In alto a sinistra c’è una scena di vita nel campo di prigionia, dove per mia sfortuna rimasi dal 22 Marzo 1943 al 19 Gennaio 1947.
Lì passai 6 anni senza mai vedere un comodo letto; fui costretto a dormire per terra su dei semplici e duri giacigli, sotto una tenda come quella che ho rappresentato, patendo la fame e la sete.
Dietro di essa si scorgono i fili spinati ed i lampioni che ogni notte gli Inglesi tenevano accesi per sorvegliarci. Questi ultimi ci facevano bonificare le zone dove precedentemente erano avvenuti i combattimenti.
Noi prigionieri dovevamo stare molto attenti a non avvicinarci troppo al filo spinato.
Ricordo che una volta un mio compagno stava giocando con una pallina, quando questa ad un tratto rotolò vicinissima alla recinzione.
Lui cercò di afferrarla, ma non ci riuscì: una sentinella gli sparò, prima che le sue dita potessero toccare quell’oggetto di svago. L’Inglese probabilmente era convinto che il mio compagno volesse fuggire, o forse più semplicemente cercava un modo per divertirsi o per dimostrare la propria autorità.
Non riesco nemmeno a descrivere le emozioni che provai quando vidi il corpo del mio compagno accasciarsi a terra, e la pallina rotolare ancora più vicina al filo spinato, distante pochi centimetri dalla sua mano inerte.”
Dopo il difficile racconto di oggi penso che sia meglio fermarci, così saluto il signor Albino con la promessa di una mia prossima visita.
Pochi giorni dopo io torno a trovarlo e lui mi descrive l’incisione in alto a destra. “La colomba: per me il simbolo della pace. La fine della guerra, il ricominciare a vivere veramente, tornare alla normalità, abbracciare tutti, guardando un uomo davanti a sé, non doversi più chiedere se fosse nemico. La pace fra le nazioni, la pace fra i popoli e quella tra le etnie: era quella la pace che tanto agognavo.
L’ultima incisione sul lato destro rappresenta una nave. Per me quella era la nave della speranza. Non era una in particolare; poteva essere (molto difficilmente) una nave da crociera, o un peschereccio malmesso. Non m’importava e ancora non lo potevo sapere: qualsiasi fosse stato il tipo d’imbarcazione che mi avrebbe ricondotto a casa, quella si sarebbe chiamata “la nave”. Quella, che finalmente mi avrebbe portato in Patria, nella mia terra e dalla mia famiglia.”
Il centro della cornice è occupato da una foto che ritrae il signor Albino intento a nutrire alcuni volatili. “Quella me la sono fatta scattare da un amico, con la mia macchinetta fotografica, se così si poteva definire quel piccolo e fragile aggeggio. Mi trovavo ad Hon, quando ancora appartenevo all’ottavo battaglione autonomo che presidiava l’oasi. Nella foto sto dando da mangiare a due colombi, precisamente due colombi viaggiatori per l’eventuale necessità di inviare dei messaggi.”
Credo proprio che la sua descrizione sia giunta al termine.
Lo osservo pensando a tutto ciò che ha passato: chiamato alle armi il 6 Gennaio 1941, ha dovuto sopportare per ben 6 lunghi anni (fino al 25 Novembre 1947, data del suo congedo) la guerra e tutte le sofferenze conseguenti. Io allora noto che, nonostante il fisico sia provato da tutti gli anni che si porta sulle spalle, ha ancora uno sguardo acceso.
C’è una luce che gli brilla da dentro: è la consapevolezze di avere avuto salva la vita, mentre a molti altri purtroppo è stata tolta.
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