Capitolo V°

DECIMA M.A.S.

All’incirca a quell’epoca presero sede a Crocetta dei reparti di M.A.S.

Nulla di sorprendente: il ministero repubblicano della marina era a Belluno, plausibile, quindi, che marinai fossero di guarnigione a Crocetta del Montello.

Senonchè questi marinai parlavano quasi tutti il dialetto milanese e avevano dei ceffi più da galeotti che da marinai. Da principio non si fecero troppo notare, poi aumentarono di numero e di arroganza.

Per contrarre l’arruolamento nella M.A.S. era facilissimo. Non vi erano limiti di età – anche un bimbo di 11 anni venne arruolato, vestito ed armato – non occorrevano documenti, tanto meno quelli penali, non si badava neppure se in precedenza qualcuno fosse stato partigiano, si passava sopra anche all’idoneità fisica, tant’è vero che divenne marò della M.A.S. un disgraziato mutilato ad una gamba. La truppa godeva di un trattamento ottimo, consumava i pasti in una mensa espressamente istituita, percepiva un soldo assai vistoso, al quale si aggiungevano premi di varia specie in denaro. Un sergente maggiore da me ben conosciuto, oltre al vitto, all’alloggio ed al vestito aveva il soldo di L. 190.- giornaliere. Un ufficiale superiore del vecchio esercito sarebbe stato felicissimo della metà.

A poco, a poco i Mas assunsero la tutela del non mai turbato ordine pubblico, e pattuglie cominciarono a perlustrare le strade. Operarono arresti, fecero osservare le norme di circolazione, di oscuramento e di coprifuoco.

Si resero, insomma, padroni della situazione. Poi cominciarono le persecuzioni. Gli ex partigiani del Montello erano andati a lavorare nelle fortificazioni campali che i tedeschi, in quella epoca, facevano eseguire, sotto la loro direzione e sorveglianza, verso Nervesa e sulla sinistra del Piave. Erano, dunque, alle dipendenze e sotto una larvata forma di protezione da parte dei tedeschi, ciò nonostante, uno alla volta, furono catturati e rinchiusi nelle camere di sicurezza dell’ex caserma dei carabinieri di Crocetta. Non si sa cosa sia avvenuto in seguito all’inquisizione alla quale furono sottoposti. Sta il fatto che, nella prima quindicina di dicembre, gli arresti si fecero sempre più numerosi. L’inquisizione si allargò come a macchia d’olio. Quale favoreggiatrice del movimento fu arrestata la signora Guillon. Il di lei marito dovette seguirla. Furono rinchiusi in stanze separate, ben si capisce, ma al marito non venne inflitta una vera e propria inquisizione, la signora fu rigorosamente sorvegliata e sottoposta a lunghi interrogatori. Più tarsi, il 28 dicembre, quando pareva fosse stata chiusa l’istruttoria, fu arrestata la signorina Giulia Poloni di Giuseppe da Biadene. Interrogata a lungo, improvvisamente venne rimessa in libertà la sera del 30.

Anche i signori Saccardo di S. Croce del Montello ed il maggiore Larcher di Covolo furono invitati, verso la fine della prima quindicina di dicembre a Crocetta, esaminati, trattenuti qualche giorno a disposizione della X° M.A.S. e poi rilasciati perché immuni da lue partigiana. La giovane Buratto Costanza, invece, fu a lungo carcerata ed esaminata; venne messa in libertà solo dopo essere stata trasferita a Treviso a disposizione di quell’ufficio di polizia politica. Ma coloro che subirono un trattamento bestiale e inumano, la flagellazione a la tortura del tavolino furono i seguenti:

1. Marsura Luigi detto Binda, di Ciano

2. Bellini Secondo detto Guerra, di Ciano

3. De Faveri Giulio detto Negus, di Ciano

4. Judica Giuseppe siciliano

5. Giovannacci Lazzaro, da Mestre [1]

6. Berrei Giovanni detto Mumi, da Pieve di Soligo

7. Dalla Costa Leone dello Lallo, da Ciano

8. Bolzonello Giovanni, da S. Mama

9. Intingoli Giovanni, detto Franco, da Andria (BA)

10. Giolo Sante, da Ciano

11. Giolo Alberto, da Ciano

12. Giolo Carlo, da Ciano

13. Brunoro Narciso, dei SS. Angeli del Montello

14. Visinelli Adelmo, detto Portus, emiliano

15. Morello Guido, da Ciano

16. Rasera Giovanni, da Montebelluna

Il sergente Calabretto, della M.A.S. di Crocetta, condivise la prigionia con i partigiani, pur non avendo fatto parte della loro organizzazione, era colpevole di essersi fatto intermediario della corrispondenza clandestina dal carcere della signora Guillon.

* * *

Come venivano operati gli arresti?

Nel modo più rapido e meno rumoroso; preferibilmente di notte. Un autocarro di armati si portava nei pressi della casa del sospetto. La casa veniva circondata, gli abitanti svegliati, le porte aperte con le buone o con la violenza. Seguiva una rapida ed accurata perquisizione.

Il presunto reo di sentimenti avversi alla repubblica sociale veniva ghermito, caricato in un autocarro e trasportato nella caserma. Quando il disgraziato era caduto nelle mani di quella gente poteva dire di essere un morituro.

Ho fatto l’esperienza personale del metodo di cattura quando i Mas vennero per prendere mio figlio nella notte del 20 dicembre 1944.

Alle undici di sera, improvvisamente, sentii urlare il mio nome e battere reiterati e violenti colpi alle scurette delle finestre del piano terreno. Mi affacciai dal lato della strada e, presago, chiesi chi era: Decima Flottiglia Mas – sentii rispondere da parecchi armati – venite giù subito. Aprite!

Risposi dovessero avere un po’ di pazienza perché dovevo vestirmi. Infilai i pantaloni e la giacca e, reggendomi con le stampelle – ero ammalato le gambe e queste non sopportavano il peso del mio corpo – scesi le scale ed aprii la porta. Appena fui sulla soglia mi fu gridato: Mani in alto. Venite avanti. Risposi che dovevo reggermi con le stampelle e se alzavo le mai non avrei potuto avanzare. Mi si lasciò fare pochi passi in avanti con le mani alle grucce e fui ai cancelli. Una voce arrogante dall’esterno mi chiese: Siete voi l’ex ufficiale Morello?

- Lo sono tutt’ora – dissi – il grado non mi è stato tolto.

Due individui col mitra mi prendevano di mira stando a cavalcioni sul muro della cantina; altri dall’esterno dei cancelli.

Si faceva troppo onore a un disgraziato che senza appoggio non poteva neppure mantenere la posizione eretta. Rimasi calmo e chiesi se dovevo aprire il cancello per carri o se bastava quello per le persone. Dopo aperto mi si chiese:

- Dove è vostro figlio?

Non era in casa e lo dissi.

- Bugiardo! – mi rispose un tizio coi distintivi da capitano.

Tacqui. Il cane dall’interno della casa abbaiava. Prima vollero che il cane fossero rinchiuso, poi entrarono.

Andai in cucina e mi sedetti. Il tizio vestito da capitano, pistola semipuntata, mi si mise di fronte; berretto in testa, sigaretta tra le labbra, sguardo bieco, minaccioso e sospettoso.

Intanto un altro messere, fregiato dei distintivi da tenente, seguito da una mezza dozzina dei suoi, volle essere accompagnato da mia moglie in tutte le stanza. Perquisirono. Non trovarono armi, né mio figlio come forse si desiderava. Non rubarono, debbo dichiararlo, benché, ponendo mano in un cassetto, venisse loro sott’occhio un piccolo pacchetto di biglietti di banca. Mentre gli uni perquisivano, il pseudo capitano mi interrogava. Voleva sapere se avevo armi nascoste, dove era mio figlio, perché non era in casa, se quella notte fosse rientrato, se avesse potuto andarlo a prendere con l’autocarro quella notte stessa.

Troppi «se» ed io ero meno ingenuo di quanto mi si credeva.

Espressi il rammarico di non possedere armi, e chiesi per quale motivo si cercava mio figlio che era un uomo onesto e retto, e non si era mai interessato di politica.

Lo si voleva per scopo informativo, semplicemente a scopo informativo, lo si sarebbe rilasciato al più presto.

Giocai il tutto per tutto e, senza assumere l’impegno formale, lasciai credere, che mio figlio all’indomani mattina, appena di ritorno da Fanzolo, dove si era recato per affari, si sarebbe presentato al comando M.A.S..

Mezz’ora dopo scesero dal piano superiore quella specie di tenente e suoi accoliti. La perquisizione aveva avuto, come era naturale, esito negativo.

Il pseudo capitano mise la pistola nella fondina, uscì e fischiò. Altri M.A.S. uscirono dal brolo dove erano stati appiattiti in precedenza, circa una ventina. Altrettanti si riunirono dalla strada da dove avevano impedito il transito e completato l’accerchiamento della casa. Raggiunsero l’autocarro e partirono.

* * *

Come veniva condotta l’istruttoria?

Intendiamoci: ritengo non sia neppure il caso di parlare di una istruttoria. Per essere più precisi converrebbe chiedere: come venivano esaminate quelle persone che arbitrariamente erano state arrestate? Ciò premesso, posso con tranquilla coscienza affermare: 1) che gli interrogatori venivano fatti dalle 22 all’alba del giorno appresso; 2) gli interrogati venivano frustati e sottoposti alla tortura; 3) pattuglie di armati venivano poste all’imbocco delle strade perché eventuali passeggeri non udissero le grida strazianti dei seviziati.

Quanto affermo può essere confermato dalle vittime superstiti di quel nefando imperversare di atrocità.

Mio figlio conserva un ricordo indelebile dei due interrogatori ai quali fu sottoposto e della prigionia sofferta. Saputo di essere ricercato, il 21 mattina venne a sentire il mio consiglio. Lo lasciai libero di fare come meglio riteneva, lo avvertii di presentarsi nel solo caso si fosse sentito sicuro tanto da sfidare le bastonate e la tortura con la speranza di salvare la vita.

L’unico partigiano che lo avrebbe potuto accusare, perché consapevole della sua attività, Follador Bellino detto Fiacca, da Venegazzù di Volpago, era caduto combattendo da valoroso contro la sbirraglia Mas, pochi giorni prima. Sicuro di sé, mio figlio decise di presentarsi. Andò alle nove e non fu ricevuto. Ritornò alle 15; non c’erano gli ufficiali. Dovette attendere fino alle 17.  Fu introdotto, perquisito, lasciato in un corridoio, sotto scorta, in attesa dell’arrivo degli inquirenti. Un ragazzo, certo Bolzonella da Crocetta arruolatosi da poco nei Mas, suo conoscente, lo avvertì che dai partigiani prigionieri era stato fatto il suo nome. Da quel momento si ritenne perduto, ma si ripromise di non parlare ed il suo proposito divenne incrollabile quando da un locale vicino gli giunsero i gemiti e le grida dei seviziati.

Finalmente alle 21 fu fatto passare in quella stanza muta testimone di tanti orrori, dove venivano fatti gli interrogatori. Si trovò di fronte ad un ometto pretenziosamente vestito in civile, seduto ad un tavolo che si trastullava con una pistala tra le mani e tosto gliela diresse contro; vicino a questi uno scritturale, pronto a dattilografare le deposizioni. Vari individui in uniforme da ufficiale, si collocarono alle sue spalle. Mentre rispondeva alle prime domande, l’ometto al tavolino si accarezzò il mento. Come ad un segnale convenuto, mio figlio venne immediatamente colpito da una pioggia di pugni alla nuca e alla testa. Si voltò sorpreso ed indignato, e schiaffi e pugni seguitarono a cadere come gragnola sulla faccia anziché all’occipite. Ad ogni risposta le percosse si ripetevano. Sotto i colpi ebbe un atto di impazienza. L’ometto, digrignando i denti, scattò dal tavolino e gli mise la pistola alla tempia, altrettanto fece colui che lo percoteva. Fu avvertito che anche se avesse negato all’infinito sarebbe stato egualmente condannato, poiché si sarebbe messo a verbale che, perquisito, gli era stata trovata in tasca una pistola; una di quelle con le quali lo si prendeva di mira.

Alla fine le percosse non gli diedero più alcuna sensazione di dolore, la luce stessa della lampada gli sembrava molto attenuata. Evidentemente, però, i suoi ostinati dinieghi avevano messo l’inquirente in qualche difficoltà. L’interrogatorio fu sospeso e l’inquisito venne fatto uscire da quel luogo di tortura.

Non venne eretto e, di conseguenza, non fu firmato, alcun verbale. Sospinto con la canna del moschetto da vari militi, poscia perquisito da un caporale, il malcapitato fu rinchiuso in una camera di sicurezza interna al secondo piano, dove erano rinserrati gli altri poveretti già partigiani del Montello. Durante la notte due di questi furono più volte chiamati e nuovi esami e poi fatti risalire.

Alle 4 del mattino fu ancora la volta di mio figlio. Messo alla presenza degli individui prima descritti, e interrogato, venne nuovamente percosso, indi fu fatto spogliare a torso nudo.

Un tenente portò in mezzo alla stanza un tavolinetto col piano strettissimo e a quello il paziente fu fatto appoggiare nel punto giusto con le reni, e messo in bilico. Un individuo dalla faccia patibolare, alto, magro, biondo, quello che prima lo aveva tanto ferocemente percosso – portava i distintivi da sottotenente ma, indubbiamente, doveva essere un avanzo delle patrie galere – andò, con uno scudiscio di nervo di bue in mano, a sedersi vicino al malcapitato. Dopo una decina di minuti di quella sospensione che pareva spezzargli in due la colonna vertebrale e fargli scoppiare gli intestini, le braccia e le gambe del paziente quasi toccarono il pavimento. Il carnefice allora pronto si mise a roteare minacciosamente lo scudiscio obbligandolo ad alzare le mani ed i piedi. E l’impari lotta cominciò.

- Stai male – diceva il carnefice – Stai male, vero? Starai peggio fra poco. Ti andrebbe bene, ora, un guanciale sotto la testa; ma io ho ben altri tormenti peggiori ancora di questo. Ho il palo per te. Poi, qui sui fianchi ove ti cola il sudore, ti verserò della benzina e l’accenderò. Sentirai che piacere. Il torturato sentiva che era all’estremo di ogni sua forza, ma non volle parlare e non parlò. Fu la sua salvezza e quella di altri ancora.

Era quasi incosciente quando fu tolto da quello strumento di tortura e, benché barcollasse, costretto a mantenersi ritto in piedi, sotto l’implacabile minaccia dello scudiscio e delle armi. Le domande si fecero più precise e più pressanti. Si chiese notizia di una certa radio trasmittente che funzionava sul Montello. Si voleva assolutamente sapere come era finita quella certa faccenda di lanci, gli vennero fatti nomi di partigiani, di componenti Comitati di Liberazione. Il torturato, a buon punto, ricordò che Fiacca, l’eroico partigiano di Venegazzù era caduto e, quasi sicuro del fatto suo, perché con gli altri partigiani non aveva mai trattato argomenti simili, seppe accanitamente difendersi dalle insidiose investigazioni del feroce avversario.

Dopo un serrato scambio di domande e risposte, delle quali, naturalmente, non fu redatto alcun verbale, verso le sei il prigioniero venne rimandato in camera di sicurezza. Non potendo più mantenere la posizione eretta, tanto gli doleva la schiena, i carcerieri a spintoni gli fecero risalire le scale.

Non si creda che le torture e le percosse siano state riservate unicamente a mio figlio.

Lo studente in medicina Burei venne percosso, frustato, torturato. Dopo tre o quattro mesi ebbi occasione di vederlo: portava ancora sul volto il segno delle scudisciate.

Il maresciallo Dalla Costa Leone fu varie volte flagellato e posto sul tavolinetto. Fra le tante ebbe una frustata sulla cicatrice di un atto chirurgico da non molto tempo subito, frustata che quasi riapriva la ferita.

Bellini, De Faveri, Visinelli, i fratelli Giolo, Intingoli, Brunoro, furono tutti percossi bestialmente e torturati. I primi due portarono nella tomba le stimmate del martirio sofferto.

Sul viso di un prode vegliardo, animo fiero di patriota, Giovannacci Lazzaro, anima generosa e pura, vennero spezzati due scudisci  ed un terzo venne reso inservibile. Il Giovannacci, quando venne ricondotto in camera di sicurezza, aveva le ossa nasali fratturate, il suo volto era una massa informe di carne sanguinolenta. Fu tetragono a ogni coercizione, si dichiarò sovventore dei partigiani del Montello, ma non accusò nessuno, mai. Il giorno appresso la tortura chiese ad una giovane donna, al soldo dei Mas, che per carità bagnasse d’acqua fresca il fazzoletto per rinfrescare le sue sanguinanti piaghe, ed ebbe un rifiuto dalla sgualdrina che non volle essere da meno di chi la pagava.

Quando i resti di Lazzaro Giovannacci saranno esumati, si vedrà di quali torture egli sia stato vittima.

Questi i metodi di coloro che predicavano il nuovo credo e impunemente parlavano in nome della Patria.

* * *

Come venivano trattati i prigionieri?

Ricevevano un piatto di brodaglia fredda  e cento grammi di pane a metà giornata, altrettanto alla sera. Erano rinserrati in un’unica cella di forse tre metri per lato, senz’aria e senza luce. Ripeto, senz’aria e senza luce, ed erano in 17. Così, durante la prigionia, nessuno di essi potè mai distendere le dolenti membra. Chi dormiva sopra, chi sotto il tavolaccio, raggomitolati sovrapponendosi gli uni agli altri. Non venne mai concessa un’ora d’aria ai poveretti che infine erano ridotti in uno stato compassionevole. Alla sera e alla mattina soltanto venivano condotti ad evacuare. Il passaggio dall’aria mefitica della cella, all’aria meno corrotta della latrina, produceva in essi affanno; alcuni svennero. Le famiglie mandavano ai prigionieri quanto di meglio potevano, il meglio veniva trattenuto ed impunemente goduto dal personale di guardia. Di 100 sigarette un detenuto non ne ebbe una. Il vitto che ricevevano dalla famiglia lo dividevano fraternamente fra loro; ma tutte le volte quel vitto non arrivava. Per otto giorni allo studente Berrei fu mandato il desinare e la cena che egli mai ricevette. Uno dei prigionieri, Judica, ferito per errore da uno degli aguzzini con un colpo di pistola al fianco, non venne fatto visitare dal medico. Fu fatto medicare, per modo di dire, da una di quelle donne che si erano messe al soldo della Mas. Non era ancora guarito quando venne fucilato. Evidentemente il capo di quell’ibrido organismo denominato Mas desiderava che la vita del carcere rimanesse occulta a tutti, medici compresi, ed aveva i suoi buoni motivi.

Ciò non toglie che quando i familiari, preoccupati delle voci che correvano sulla sorte dei prigionieri, si presentano chiedendo notizie dei loro congiunti, non venissero loro fornite, con una sfrontatezza impudica, le migliori assicurazioni circa il generoso trattamento praticato ai captivi.

Ad una povera mamma che in lacrime domandò dell’unico figlio, il protervo comandante, che si riservava anche il diritto di presiedere quel consesso giudicante di nuovo conio, rispose che il di lei figlio stava benissimo: era stato messo in una cella da solo, aveva una buona branda e coperte quante ne voleva, vitto abbondante, perfino il secondo piatto.

Il figlio invece si trovava ammucchiato con gli altri poveretti, non aveva a sufficienza da mangiare e, nella notte precedente, era stato bastonato e torturato.

Così si operava da coloro che dicevano di andare verso il popolo.

* * *

Se in questo mondo vi sono i malvagi, vi sono anche i buoni.

In quei fortunosi giorni la signorina P.L. di Ciano spontaneamente mi offrì la sua collaborazione. Il suo disinteressato aiuto mi fu prezioso: dove da solo non sarei mai arrivato, tempestivamente giunsi in sua compagnia.

La mia brava collaboratrice certamente ricorderà quanto in appresso verrò narrando, e, nel ricordo, troverà le tracce della sua valida cooperazione.

La prigionia di mio figlio si prolungava e facevo le più nere previsioni, quando, per vie traverse, mi giunse un primo biglietto, pochi giorni dopo un secondo, poi un terzo. Mi scriveva di trovarsi coinvolto in una strana faccenda di radio messaggi e di lanci; il suo nome era stato fatto non sapeva da chi. Egli aveva ostinatamente negato, sorretto dalla fede di sentirsi puro.

Dunque mancavano le prove della sua attività. Compresi essere giunto il momento di agire. Il 27 dicembre feci una prima visita al comando tedesco di Covolo. Fui ricevuto, molto rispettosamente, da un capitano che parlava correttamente l’italiano. Esposi il mio caso ed i miei dubbi circa i metodi praticati per estorcere delle confessioni. Egli si sarebbe interessato, ma non poteva agire di autorità perché i Mas erano organi indipendenti.

Si interessò nella stessa giornata, e nel pomeriggio mi fece dire che, ove non fossero state scoperte altre trame, la vita, almeno, di mio figlio, sarebbe stata salva.

Il 29 dicembre, ormai deciso a non indietreggiare di fronte a qualsiasi difficoltà, mi recai personalmente a Crocetta per conferire col famigerato comandante della Mas.

Nell’attesa, corrompendo uno degli uomini di guardia, mi fu mostrato mio figlio da una inferriata. Non si reggeva in piedi, era giallo, disfatto; mi fece cenno di un saluto con la mano e si ritirò.

Gli gridai di non confessare mai.

Senza bisogno di alcuna spiegazioni compresi quali prove aveva superato e mi sentii ardere di sdegno.

Verso le 18, dopo una attesa di parecchie ore, fui introdotto dal comandante. Era vestito come al solito in abito civile; altri pseudo ufficiali in uniforme gli facevano corona. Mi fecero sedere. Chiesi in quale posizione si trovava mio figlio di fronte alla legge. La domanda era capziosa, si finse di non comprenderla.

Precisai domandando in quale posizione si trovava di fronte al comandante della Mas. E questi, allora, con arroganza rispose che la posizione era appannata, offuscata, occorreva fosse fatta luce completa sulle varie manifestazioni della sua attività. Insistei per sapere di quali appannamenti ed offuscazioni si trattasse. Mi si disse che il 16 Agosto, quando i partigiani si erano asserragliati in casa mia, mio figlio si era permesso di dare dei consigli.

Risposi tosto che se avesse dato il consiglio di non commettere delitti anch’io avrei sottoscritto il consiglio a piene mani. Chiesi senz’altro di condividere la sua sorte. Chi mi stava di fronte avvertì la stoccata e rispose, con un sorriso rabbioso, che gli dispiaceva di non avere elementi sufficienti per incriminarmi. Risposi che si trovassero come si erano trovati per mio figlio che non aveva mai fatto del male a nessuno, né si era mai interessato di politica. Il comandante domandò se l’accento napoletano rendeva le sue parole incomprensibili, ed alzando minacciosamente la voce avvertì che non erano ammessi processi. Dissi che comprendevo benissimo, chè napoletani, durante la mia vita, avevo avuto occasione di conoscerne non pochi e li avevo sempre trovati cortesi e gentiluomini perfetti. Il colloquio divenne serrato, stringente.

Nella tema di non poter trattenere il mio sdegno e di compromettere ancora di più la sorte di mio figlio, mi alzai ripetendo che ero un vecchio soldato e nessun evento mi avrebbe fatto paura. Domandai ancora la libertà di mio figlio il quale non era colpevole di alcun delitto.  Ripresi le stampelle ed uscii mentre dal gruppo dei pseudo ufficiali sentii distintamente qualcuno lamentarsi di essere stranieri nella loro Patria. Varcata la soglia fui raggiunto da uno di loro che cercò di rabbonirmi. I biglietti dal carcere mi erano guide preziose. Con parole più miti ribadii quanto avevo detto prima, dipingendo mio figlio quale innocente vittima di calunnie di gente desiderosa di scagliare la propria responsabilità sulle spalle altrui. L’ufficiale, certamente il più educato della comitiva, almeno dalle apparenze, tentò qualche sondaggio, poi mi lasciò partire dandomi buone speranze per i prossimi giorni. Ho avuto l’impressione che egli abbia speso, presso il suo superiore diretto, una buona parola per il buon esito della mia causa.

Avevo esposto le mie ragioni senza reticenze. Durante la notte, e nella giornata seguente, rimasi in attesa di vedere esaudito il mio desiderio: quello cioè di condividere la sorte di mio figlio. Invece la serata del 30 dicembre, mio figlio, libero, rientrò nella casa paterna, da dove dieci giorni prima si era allontanato con previsioni tanto nere.

* * *

La sera del 1° gennaio 1945 si diffuse la notizia che un falegname di Crocetta aveva ricevuto dalla Mas l’ordinazione di sei casse da morto da tenersi pronte per la notte. Le esecuzioni, quindi, avrebbero dovuto essere sei e, un ordine successivo, le avrebbe ridotte a cinque. Non si seppe mai il nome di colui il quale avrebbe dovuto giacere nella sesta cassa.

La tragedia era giunta all’epilogo.

Nella notte dall’uno al due gennaio il Parroco di Crocetta ebbe l’incarico di preparare i predestinati all’estremo passo. Sostennero con calma la notizia della loro fine imminente: erano ormai abituati all’idea della morte e, forse, in qualcuno di essi, la morte era un sollievo, la certezza di non subire altre torture. Ricevettero con gioia i conforti della religione, Si affidarono alla misericordia divina, esprimendo tutti un solo desiderio: quello di non essere più bastonati.

Alle ore cinque del due gennaio 1945, due autocarri giunsero al cimitero di Ciano. Ne scesero i suppliziandi e gli esecutori. Le strade furono bloccate, i curiosi allontanati.

Allineate al muro di cinta furono poste cinque sedie, a queste furono legati i poveretti con le mani dietro la schiena. Non fu loro concesso di rivedere un volto amico.

Poco dopo una scarica stroncava cinque vite:

1. Giovannacci Lazzaro

2. Judica Giuseppe

3. De Faveri Giulio

4. Bellini Secondo

5. Marsura Luigi

I loro corpi vennero rinchiusi in fretta nelle casse portate al seguito, con l’ordine categorico che fossero tumulate appena scavate le fosse. L’accanita persecuzione continuava oltre la morte.

Più tardi la vedova di Judica venne chiamata dalla Mas. Il comandante si disse incaricato dal suppliziato di dare l’estremo bacio alla piccola che era venuta alla luce mentre il di lei padre trovavasi in prigione.

La donna portò la piccina e l’ignobile comandante non si peritò di baciare la figlia di cui pochi giorni prima aveva fatto uccidere il padre. Nel baciarla mostrava gli occhi velati di lacrime: fenomeno di sadismo o satanica ipocrisia?

Il 26 gennaio 1945, un partigiano di ignota provenienza venne catturato nell’ufficio del direttore del Canapificio Veneto di Crocetta, dove si era recato per esigere l’erogazione di una certa somma a favore della sua causa.

Fu catturato col solito tranello, portato nella caserma dei Mas, interrogato. La sua sorte fu troppo rapidamente decisa. La mattina successiva, 27 gennaio, fu trasportato al cimitero di Ciano. Chiese di essere fucilato da soldato: al petto. Gli fu consentito soltanto di ordinare il fuoco che doveva sopprimerlo. Giovane dall’animo di ferro, ordinò a voce alta e ferma: Sparate.

Ma i fucili tentennavano nella mani malferme degli uomini del plotone di esecuzione, ammirati ed intimiditi della forza di quell’impavido. Lo studente Giammario Bruno, di 19 anni da Cividale, fu finito con un colpo di pistola sparatogli dal sergente maggiore Mariucci dopo la seconda scarica. Fu l’ultima vittima dei Mas.

* * *

Qualche giorno dopo la soppressione delle prime cinque vittime e cioè il 7 gennaio, i prigionieri superstiti erano stati trasportati altrove. Nelle carceri di Piazza del Duomo a Treviso, a disposizione dell’ufficio di polizia politica, erano stati rinserrati Dalla Costa Leone – Bolzonello Giovanni – Intingoli Francesco – Carlo e Sante Giolo – Brunoro Narciso – Visinelli Adelmo e la giovane Buratto Costanza. Giovanni Burei, messo a disposizione di un capitano delle brigate nere, era strettamente sorvegliato e alla sera veniva messo sotto chiave nei locali a ciò adibiti dall’ufficio politico. La signora Guillon era stata mandata a Milano.

Pure Calabretto era stato fatto partire per Milano, sede della Mas. Rasera di Montebelluna, Alberto Giolo e Morello Guido di Ciano erano, come sopra si è detto, stati scarcerati alla fine di dicembre.

Vuotate le camere di sicurezza, scavato l’orrore attorno a sé, anche i maggiori responsabili dell’ecatombe del 2 gennaio, cioè quella specie di ufficiali buoni a tutto fare, alla sordina ci tolsero il disgusto della loro ignobile presenza. I pochi militari rimasti a Crocetta verso la fine di marzo dissero di aver ricevuto l’ordine di raggiungere il fronte: motivo per cui vennero raccolti nelle vicinanze del confine svizzero, in provincia di Como, nei pressi, si disse, di M. Orfano.


[1] Lazzaro Giovannacci nacque a Mulazzo (Pontremoli) il 12 luglio 1884 da modesta famiglia di commercianti, che dalla Toscana passarono in Piemonte in un paese della provincia di Novara, dove i lavori allora in corso per il traforo della galleria del Sempione offrivano occasione di guadagno. Il carattere aperto e gioviale che si rivelò in lui sin da fanciullo, mai venne meno nel corso della sua vita, pur attraverso dure esperienze dell’umana ingratitudine. Non avendo potuto coltivare, come avrebbe desiderato, le sue spiccate attitudini per la meccanica, si diede al commercio con ardore giovanile e idee grandiose. Sposatosi poco più che ventenne, fu prima a Tenda (Cuneo) poi in America (Nuova-York, Boston, Buenos-Aires). Un sereno ottimismo accompagnava ogni sua iniziativa, sennonché un’onestà irreprensibile e la generosità del suo cuore, non solo gli impedirono di accumulare ricchezze, ma gli prepararono spesso la rovina. Pertanto in quegli anni la fortuna non gli fu favorevole. Alla perdita delle due prime adorate figliolette vennero ad aggiungersi  rovesci finanziari, per cui si trovò a rincominciare daccapo quando quattro anni dopo fece ritorno in patria. Tranquillo soggiorno gli offerse un paese della Campania , dove si recò per motivi di lavoro durante la costruzione della ferrovia Roma-Napoli. Fu un periodo breve, La prima guerra mondiale lo chiamava alle armi. Stabilitosi a Venezia nell’immediato dopoguerra, si tenne lontano da ogni competizione di parte, né mai in verun anno di regime fascista volle aderire al partito, che illegalmente era salito al potere e aveva tolto al popolo la libertà. Allochè a Marghera sorsero le prime case del Quartiere Urbano, egli fu tra i pionieri della vita commerciale di quella zona. Fra le inevitabili incertezze che seguono il sorgere di una grande opera nuova, aperse un modesto negozio di ferramenta, che andò via via ingrandendo con lunghi anni di indefessa operosità. Il lavoro occupò invero ogni sua attività, ma non così da impedirgli di considerare e sentire in cuor suo il mal operato dell’odiato regime, che prima con l’alleanza alla Germania poi con la dichiarazione della guerra avviava l’Italia alla completa rovina. Pertanto il 25 luglio 1943 salutò con sincero entusiasmo la caduta del despota, entusiasmo che non venne meno neppure dopo l’invasione tedesca e la reazione fascista dell’8 settembre, ma anzi gli fu di incitamento ad agire per la santa causa, a cui si diede con nobile disinteresse, esortando ed aiutando i giovani a sottrarsi ai tedeschi, divulgando foglietti di propaganda antifascista, sovvenzionando i Partigiani e fornendoli di armi, esponendo infine la propria vita e quella del figlio, allorché la sera del 1° marzo 1944, sfuggito ai fascisti venuti per arrestarlo, riparava sul Montello tra i Partigiani con i quali condivise serenamente i rischi e i disagi. Aveva allora sessant’anni, nondimeno, entrato a far parte della Brigata Mazzini, fu lottatore instancabile e, per i Partigiani, animatore, padre, fratello, compagno. Era un uomo semplice, ma onesto e deciso. Non era oratore, ma le sue parole avvincevano ed entusiasmavano. Salvatori per miracolo durante il rastrellamento di settembre insieme con gli altri Partigiani che non avevano voluto abbandonare il Montello per mettersi in posizione più sicura, non ebbe ugual fortuna allorché due mesi dopo giungevano in zona reparti della X Mas. Da essi arrestato il 18 dicembre, ebbe a soffrire pene indescrivibili, che tuttavia non riuscirono a strappargli rivelazione alcuna. Quando rientrava nella cella con il viso trasfigurato dalle torture patite, sedendosi in un angolo tra gli altri detenuti Partigiani, trovava voce soltanto per raccomandare ai compagni di non accusarsi l’un l’altro, ma di lasciare che lui solo, ormai vecchio, si prendesse tutta la responsabilità. Così sopportò ogni vessazione senza mai un lamento, conservando intatta la sua fede e alla fine destando l’ammirazione dei suoi stessi aguzzini, i quali tuttavia vollero con la fucilazione occultare le loro nefandezze, essendo il viso dell’eroico vegliardo l’immagine vivente del martirio.