Capitolo II°

SCHERMAGLIE

Alla fine del 1943 si accentuava la resistenza passiva agli oppressori col non rispondere ai bandi di chiamata alle armi per la creazione di quel nuovo esercito repubblicano, di cui Mussolini aveva la recondita speranza di forgiare un nuovo strumento atto a costringere la Nazione a subire la sua nefasta e deleteria opera di governo.

Anche la povera gente si fece guardinga e non abboccò con la facilità di prima alle mirabolanti promesse dei contratti di lavoro in Germania, con le quali si volevano nascondere quelle vere e proprie deportazioni di cui furono vittime tanti nostri operai.

La metamorfosi dei tedeschi, da alleati ad invasori e padroni, non era stata una sorpresa, ma aveva dato a tutti la sensazione di essere caduti in un abisso dal quale si doveva e si voleva risalire.

Anche qui da noi vi fu una sosta di attesa e di raccoglimento, che più tardi si trasformò in resistenza passiva, ma non si ebbe, né per molteplici cause si sarebbe potuto avere, un’organica, aperta, decisa ribellione. Si seguì, ma non si potè precedere la lotta per la liberazione della nostra terra.

Quasi sintomo di ripresa di vita, nella primavera del 1944 cominciò ad apparire sul Montello qualche gruppetto di partigiani, male armati, peggio diretti.

Erano pochi ed al principio non commisero alcuna violenza, poi, col crescere di numero, ebbero maggior bisogno di armi e tentarono di procurarsele con la forza.

Si presentavano di notte nelle case ove erano alloggiati i funzionari del Ministero della Guerra della R.S.I. e si facevano consegnare le armi e uniformi, poi si allontanavano: rientravano fra le ombre protettrici del Montello loro residenza abituale. Uno di questi funzionari, un bel tipo di eroe della sesta giornata, una sera, dopo aver fatto consegnare dalla moglie quanto gli era stato richiesto, per maggior sicurezza andò a nascondersi nel granaio fra casse e sacchi; il che non gli impedì poi di applaudire freneticamente come a liberatori quei reparti di S.S. tedeschi e italiani che vennero a compiere un rastrellamento a Ciano, e dimostrare il proprio compiacimento per quanto di male il rastrellamento aveva portato al paese.

In maggio o giugno da parte dei partigiani fu commesso un primo delitto: venne ucciso Feltrin Angelo detto Taito, di Ciano, uomo di dubbia moralità, già condannato per reati comuni. Accusato del furto di una bovina, che aveva immediatamente venduto a un macellaio clandestino, si era sottratto alle conseguenze dell’arresto arruolandosi fra i volontari di certi reparti alpini che i repubblicani andavano costituendo a Conegliano.

Forse in considerazione dei suoi precedenti penali, era stato fatto sergente e di ciò ne menava vanto. Un gruppetto di partigiani, fra i quali vi era il macellaio che aveva comprato la bovina dal Feltrin, lo attirò nel Montello e lo soppresse; probabilmente per vendetta, forse nella tema che fosse uno spione perfetto conoscitore dei recessi montelliani.

Aumentati di numero, dotati di qualche mitra e bombe a mano, i partigiani si fecero più arditi e osarono scendere nei paesi pedemontelliani. A Ciano, quasi a dar prova della loro attività, si fermavano nelle osterie dove si attardavano indisturbati. Poi, venuti in possesso di un’automobile, percorsero le vie dei paesi armati, bombe a mano appese alla cintura, pantaloncini corti, senza giacca.

Facevano della coreografia, ma non avevano uno scopo ben definito. Con tutto ciò si propalarono chiacchiere in cui Ciano appariva come un covo di partigiani fra i più feroci. Ed un primo fatto diede alle chiacchiere qualche lontana parvenza di vero.

Il primo luglio, sul mezzogiorno, tre militi fascisti di guarnigione a Cornuda, recatisi a fare una passeggiata sulle rive del Piave, giunti nei pressi dell’osteria della Giovanna venivano catturati dai partigiani del Montello

Non è chiaro se i tre militi fossero consenzienti a nolenti alla cattura, sta di fatto che non vennero più rivisti.

La sera stessa una ventina di fascisti, giunti in autocarro, fermavano il titolare dell’osteria Buratto Cesare e la di lui figlia Giovanna, il falegname Moretti Carlo ed il muratore Buratto Giacomo che stavano eseguendo dei lavori in una casetta vicina, e li traducevano nelle camere di sicurezza della Guardia Nazionale Repubblicana di Cornuda.

La sera dopo, domenica 2 luglio, da un altro autocarro – questa volta proveniente da Asolo -  giunto nel piazzale della Chiesa di Ciano, scese un gruppo di militi fascisti al comando di un tenente. Non si è mai saputo per quale motivo i fascisti appena messo piede a terra, cominciarono a sparare all’impazzata con grave pericolo degli abitanti delle case vicine.

Il Parroco, affacciatosi alla porta della canonica, venne tosto investito dal tenente il quale, con la pistola in pugno, gridava come un ossesso.

Sperando in un attimo di ragionevolezza, il Sacerdote tentò invano di calmare l’ufficiale. Visto inutile il tentativo alzò le spalle indignato e si diresse verso il piazzale, e l’altro gli tenne dietro. Dalla finestra del primo piano della casa del Cappellano un signore, in maniche di camicia, stava asciugandosi tranquillamente il viso, mentre dal di sotto un milite, inosservato, lo prendeva di mira col moschetto. Lesto intervenne il Parroco, scostò l’arma, e domandò se, per avventura, non si fosse trattato di un caso di pazzia collettiva.  Non si voleva di più dai forsennati i quali, gridando tutti assieme di essere siciliani, afferrarono il Parroco, lo caricarono sull’autocarro e lo tennero di mira.

Per tener compagnia al catturato vennero messi in autocarro anche Moretto Celeste, Moretto Guido, De Faveri Luigi, Pagnan Giovanni, Buratto Angela, Moretto Caterino. La comitiva andò a raggiungere i compaesani dimoranti nelle camere di sicurezza di Cornuda e là fu fatta rimanere.

Il Parroco, Moretto Guido e le tre donne furono rimessi in libertà la sera del giorno dopo. Gli altri rimasero in camera di sicurezza tre giorni, e poi vennero rimandati alle loro case.

L’episodio di era risolto felicemente.

L’avvenire, purtroppo, riservava ben peggio.

 * * *

Nelle prime ore del 16 agosto un gruppo di tedeschi di stanza a Covolo, venne in autocarro a Ciano e domandò di De Faveri detto Negus. Questo si nascose nel fienile e, benché i tedeschi lo calpestassero nelle loro ricerche, non riuscirono a scovarlo. Prima di partire i tedeschi diffidarono la popolazione spaventata che se il De Faveri non si fosse presentato al loro comando entro le ore dieci del mattino stesso, per rappresaglia avrebbero bruciato Ciano. E, tanto per non smentire se stessi, avulsero dalla famiglia Teresa De Bortoli che, non si sa ancora per quale ragione, venne deportata in Germania. Verso le ore nove di quel giorno un gruppo di una quindicina di partigiani si presentava a casa Morello e, dichiarando di voler da quella posizione difendere Ciano, entrava senza chiedere l’autorizzazione, e si affacciava ai muri perimetrali del brolo mantenendo in attesa. In quel giorno nessun autocarro tedesco percorse le vie del paese per recarsi, come al solito, alle grave a caricare ghiaia e sabbia, e questo fu il motivo per cui, fortunatamente, non avvenne alcuno scontro.

Durante la loro permanenza a casa Morello i partigiani ricevettero dal di fuori viveri e vino. Devesi aggiungere che non commisero vandalismi e, tranne la violazione di domicilio, nessun altro atto men che corretto.

Verso le quattro pomeridiane saltarono i muri di cinta e si eclissarono.

Dopo qualche giorno giunse notizia che nella piana di Pieve di Soligo era avvenuto uno scontro tra partigiani e militi fascisti e che costoro avevano avuto la peggio. Il fatto rialzò il morale dei partigiani locali, i quali imposero al filandiere Vanetti di consegnare un’auto di recente acquistata. Dopo qualche tergiversazione il Vanetti fu costretto a consegnare la macchina. Ne approfittarono i partigiani per aumentare le loro corse per le strade del paese e dei paesi limitrofi. La nuova forma di esibizione valse allora a Ciano la fama di «piccola jugoslavia» e attirò sul povero paese l’attenzione delle gerarchie repubblicane e dei comandi tedeschi. Si giunse così alla fine di agosto 1944.